Museo Archeologico Nazionale, Maschera Ghignante (da San Sperate, VI secolo a.C.)

Da qualche anno anche in Italia si è cominciato a festeggiare Halloween con particolare intensità. È pur vero che si tratta di una festività che, nella sua tradizione attuale, si è allontanata fortemente dalle sue origini (tra gli studiosi si dibattono principalmente due tesi, una delle quali farebbe derivare la festa dalle celebrazioni romane dedicate a Pomona, l’altra vede l’origine di Halloween nelle celebrazioni celtiche di Samhain) per raggiungere le connotazioni macabre a noi note, legate alla morte e al ritorno in vita dei defunti, tipiche della celebrazione statunitense della festa. Oggi, in realtà, Halloween è sentito più come una sorta di macabro carnevale autunnale ed è una chiara manifestazione di una celebrazione più consumistica che spirituale ma l’approdo, o meglio ancora il ritorno, di questa festa nelle tradizioni europee ha consentito la riscoperta di tradizioni antichissime, legate al culto dei morti, un po’ in tutto il vecchio continente e soprattutto in Italia. È così che, anche qui in Sardegna, si è sentito nuovamente il richiamo verso celebrazioni come quella de “Is Animeddas”, o di “Is Panixeddas”, di “Su Prugadoriu”, “Su Mortu mortu”, “Sas Animas” e “Su Peti Cocone”. Allo scopo puramente commerciale della festa di Halloween è dunque subentrato via via un bisogno di rivivere le proprie tradizioni, e questo dimostra come l’identità di un popolo (e non solo quello Sardo) si rafforzi anche laddove i costumi locali si incrocino con mere speculazioni.

Il tema del contatto tra i vivi e i morti è dunque ancora molto sentito, e ha caratterizzato fin dalle epoche più remote la storia e l’arte. Se in origine si pensava alla morte come al passaggio ad una vita non troppo differente da quella terrena, e ciò dava origine all’uso di seppellire i morti in ambienti che ricordavano quelli domestici (con tanto di corredo funebre, spesso assai ricercato) un po’ in tutto il mondo, è vero anche che si cercavano stratagemmi per fare in modo che i defunti non venissero disturbati nella loro nuova vita e si cercasse di rendere in qualche modo spaventoso il contatto con la nuova realtà nella quale “vivevano” i defunti. Per questo scopo nacquero, in ogni civiltà che avesse sviluppato un proprio culto dei morti, usanze come quella di apporre delle maschere sul corpo del defunto o nell’ambiente in cui esso riposava. Di tali maschere si possono ammirare diversi esemplari di alta e pregevole fattura nel Museo Archeologico di Cagliari. Uno di essi, la Maschera Ghignante proveniente da San Sperate, è tuttora uno degli emblemi più noti dell’archeologia Sarda, ultimamente surclassata nella fama solo dai Giganti di Mont’e Prama.
Cagliari è una città ricca di Necropoli di tutte le epoche, da quella di Tuvixeddu a quelle romane, al Cimitero di Bonaria e quello di San Michele. Ma, nonostante ciò, Cagliari non si presenta come una città che ha stretto un legame particolarmente forte con la morte, è una Città di vivi. A dimostrazione di questo si può considerare l’esiguo numero di luoghi e monumenti (seppur pregevoli storicamente e artisticamente) che celebrino la morte. La Cattedrale, ad esempio, racchiude al suo interno solo tre rappresentazioni esplicite della morte: la Morte Sovrana che sovrasta il Mausoleo di Martino il Giovane, e i teschi con le tibie incrociate che ornano le sepolture di Monsignor De La Cabra e di Monsignor Machin; le altre rappresentazioni funebri si possono identificare nei sarcofagi romani incastonati nel Santuario dei Martiri (oltre che nelle formelle che ospitano appunto le reliquie dei Martiri Cagliaritani) e nelle raffigurazioni dei vescovi dormienti di cui si parlerà in un prossimo post.

Cattedrale di Santa Maria Assunta, Mausoleo di Martino il Giovane: la Morte Sovrana (Giulio Aprile, 1675)

L’unico luogo in cui l’iconografia della Morte viene celebrata in modo esplicito è la Chiesa del Santissimo Sepolcro, che fu appunto sede dell’Arciconfraternita del Santissimo Crocifisso dell’Orazione e della Morte.
Sulla base delle descrizioni del Canonico Spano ci è dato sapere che l’aspetto più marcatamente sepolcrale della Chiesa era annunciato già dal portale, all’epoca (la guida dello Spano è del 1861) accompagnato da due grandi scheletri di marmo nero ora sostituiti da semplici lesene scanalate di marmo bianco. Nel sottarco del portale è comunque ancora presente una formella col classico teschio con le tibie incrociate. La Cripta della Chiesa è straordinariamente suggestiva pur nel suo aspetto funereo: alle pareti dipinte di nero con festoni bianchi si sovrappone la nuda volta bianca sulla quale campeggia l’affresco della morte ineluttabile, con inciso il motto “Nemini Parco” (non risparmio nessuno) sulla lama della falce. Altre raffigurazioni della morte, sempre nella classica veste del teschio con le tibie incrociate, si trovano all’ingresso della cappella laterale della cripta (anche in questo caso un affresco piuttosto schematico), e all’interno della cappella, alle due basi dell’arco di sostegno della volta. Anche nella Sacrestia l’immagine della morte è rimarcata nel vascone dell’acquasanta e in uno scheletro scolpito custodito in una nicchia.

Chiesa del Santissimo Sepolcro, Cripta: La Morte ineluttabile

Cimitero Monumentale di Bonaria: teschio con tibie

Si è già fatta menzione del Cimitero Monumentale di Bonaria, ma proprio il nostro Camposanto storico è la dimostrazione che Cagliari non ha mai voluto veramente rappresentare la morte in modo esplicito, bensì celebrare la Vita dei defunti. Ciò appare evidente quando si considera che in tutto il Cimitero, a fronte di centinaia di opere d’arte di grande valore, sono presenti solo due immagini della morte: una è lo scheletro vestito con la tonaca che sfiora il braccio della giovane Margherita Sommaruga nel suo monumento funebre (opera di Andrea Valli, autore anche dei bronzi che ornano il Palazzo Civico e del Monumento a Galeazzo Magnini nello stesso Cimitero di Bonaria). L’altra rappresentazione, meno leggibile ma pur sempre esplicita, è un teschio con tibie incrociate inciso su una semplice lapide (oggi mozza e anonima) in uno dei viali principali del nucleo originario del Camposanto. Uno dei grandi viaggiatori dell’ottocento, Gaston Vuillier, descrive appunto il Cimitero di Bonaria come un luogo dove non viene celebrata tanto la Morte quanto il fasto della Vita:

[…] Qui i monumenti funerari sono di rara ricchezza. Bianche statue simboliche appaiono attraverso i cipressi neri e gli enormi mazzi di fiori, le corone, portate in occasione della recente festa dei morti, hanno conservato in parte la loro freschezza. Non c’è niente di funebre in questo asilo. Si può finanche credere che il culto eccessivo con cui si onorano i defunti ha per causa veritiera la passione per il lusso e l’orgoglio dello sfoggio. Le statue sono manierate: tale, per esempio, questa giovane donna, vestita con la ricercatezza più estrema, che si lancia, le mani giunte, incontro ad un morto rimpianto, raffigurato da un busto.
Le iscrizioni funerarie, di stile ampolloso, sono incise con lettere d’oro, od in rosso, su cartelli di marmo bianco. E tutto questo profana la pace delle tombe.
Non si ha il cuore stretto, in mezzo a tutta quest’orpellatura, in codesto luogo superficiale, per il pensiero dell’ora delle ultime separazioni. Il più umile, il più solitario dei cimiteri di paese s’addice maggiormente agli amari pensieri del brusco distacco, dell’eterna separazione, e per dirla con una parola: alla morte
(Gaston Vuillier, “Le Isole Dimenticate: la Sardegna”, 1893)

Cimitero Monumentale di Bonaria: la Morte nel monumento funebre di Margherita Sommaruga

Cattedrale, Santuario dei Martiri: peduccio con mostro

Non è comunque la sola iconografia della Morte ad essere richiamata durante la festività di Halloween, ma anche un aspetto di cui abbiamo già fatto cenno: il lato macabro e spaventoso. Ciò, come dicevamo, si legò alla morte nel momento in cui vennero realizzati dei manufatti che avevano la funzione di spaventare eventuali tombaroli, o anche – così si pensa – di scacciare gli spiriti che potessero disturbare il sonno dei defunti. Quest’usanza, così ben rappresentata dalle Maschere Ghignanti del Museo Archeologico, si è poi legata al bisogno di protezione dei Vivi e dunque non furono più solo le dimore dei morti ad essere adornate di immagini spaventose che tenessero alla larga i nemici, ma anche i Palazzi e le Chiese.
La Cattedrale di Santa Maria Assunta, se non ha il primato per quanto riguarda le rappresentazioni classiche della Morte, mostra però un’abbondanza di immagini e simboli con funzione ammonitrice o di spavento. Si possono ammirare, ad esempio di quanto detto, i quattro peducci seicenteschi della Cappella di San Saturnino nel Santuario dei Martiri: veri e propri mostri che custodiscono il riposo eterno di San Saturnino (e, con Lui, quello del Principino Carlo Emanuele di Savoia). Ai peducci mostruosi si aggiungono i mascheroni presenti nel Mausoleo di Martino il Giovane (che richiamano le immagini impresse negli scudi e nelle armature degli antichi guerrieri, anch’esse realizzate con lo scopo di intimorire) e quelli nel pulpito fatto realizzare da Monsignor Pedro De Vico.
Ovviamente, come dicevamo, non sono solo le Chiese ma anche i palazzi ad essere ornati di sculture che, nello spaventare i nemici di chi vi abita, assumono una funzione difensiva, sebbene tali opere siano state realizzate in epoche nelle quali l’unico valore dato a queste rappresentazioni era quello più meramente decorativo.
Esempi notevoli di questi mascheroni posti sugli ingressi delle case possono essere osservati nel Palazzo Pes-Viale prospiciente il Bastione di Santa Caterina, all’inizio della Via Canelles, o in altri edifici settecenteschi come quello di Via Sant’Eulalia o quello di Via dei Pisani (più modesto rispetto ai precedenti).

Palazzo Pes-Viale, Mascherone del portale

L’epoca liberty ha arricchito l’intera città di numerosi esempi di Mascheroni, il più bello dei quali si può osservare a Pirri, nella Via San Quintino: qui l’intensa espressività della scultura è sottolineata dal felice recupero delle cromie originarie, che valorizzano gli occhi e la lingua, dipinti in rosso.
Due palazzi liberty, entrambi di fine ‘800 e già citati nel post sui leoni, sono anch’essi adornati da mascheroni di notevole fattura. Il primo, Palazzo Zedda, in Viale Regina Margherita, mostra sopra il portale un mascherone che – per quanto con funzione spaventosa – appare piuttosto vivace e simpatico e diversi mascheroni dall’aspetto più aggressivo sulle chiavi di volta dei balconi del piano nobile. L’altro edificio, Palazzo Magnini, in Via Baylle-Via Roma, al feroce leone che sovrasta il portale abbina una serie di motivi decorativi antropomorfi negli intagli del portone e due picchiotti dall’aspetto demoniaco che sorreggono tra i denti i batacchi nei quali sono incise altre raffigurazioni mostruose.

Nel tratto privo di portici della Via Roma si distingue, nell’Isolato Todde-Deplano, il palazzo Aurbacher. L’edificio è caratterizzato da un’esuberante decorativismo liberty pur nella classicità dell’ordine delle aperture e sebbene i motivi decorativi dei piani alti richiamino in modo particolare le forme naturali, i tre portali sono accompagnati da figure mostruose, da grottesche e da picchiotti demoniaci di notevole impatto visivo. Altri due splendidi mascheroni di gusto liberty possono essere osservati nel Palazzo Doglio, sulla facciata prospiciente il Vico Logudoro.

Palazzo Aurbacher, Via Roma

 

Pirri, Via San Quintino

Via Sonnino

L’esempio più celebre di mascherone, e il più grande a livello dimensionale, è quello della grande finestra sopra il portale centrale del Palazzo Tirso, in Piazza Deffenu. Di grande impatto e perfettamente armonizzata con le linee più regolari dell’edificio, essa è ispirata alle finestre del celebre Palazzetto Zuccari di Roma, edificio seicentesco di squisito gusto barocco.
Gli anni ’20 e ’30, con lo stile tipico del Ventennio, hanno portato numerose altre realizzazioni di matrice “mostruosa” degne di nota: si possono portare ad esempio il Mascherone della Palazzina di Via Sonnino quasi all’angolo con Via Garibaldi, i Bucrani del Palazzo della Rinascente e i Mascheroni della Legione dei Carabinieri. Altri mascheroni di notevole “mostruosità” sono quelli applicati alle facciate degli edifici abitativi per i dipendenti delle Ferrovie: quelli su Via Roma sono più feroci ed espressivi, mentre quelli realizzati in Via Sassari e Viale La Playa, ormai in pieno ventennio, sono più schematici e – nella loro approssimazione lineare – somigliano alle nostre maschere de Is Mamuthones (giusto per rimarcare le origini arcaiche dei mascheroni di ogni epoca e stile).

Palazzo Tirso

Dunque, prestate attenzione durante le vostre passeggiate in città: figure mostruose si possono incrociare ad ogni angolo, ci osservano e ci ammoniscono…

Qui di seguito potrete vedere un video con tutte le sculture citate nel post e molte altre ancora. Buona visione 🙂




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